Coronavirus: parte su 308 pazienti lo studio italiano “COLVID-19”
Il protocollo di ricerca è realizzato sotto l’egida di SIR, SIMIT e AIPO
20 aprile 2020 / Covid-19
Roma, 20 aprile 2020 – Valutare il possibile trattamento dell’infezione da Coronavirus con la colchicina. È questo l’obiettivo primario che si pone il nuovo protocollo di studio “COLVID-19”. Il progetto è promosso dalla Sezione di Reumatologia del Dipartimento di Medicina dell’Università di Perugia e realizzato sotto l’egida della SIR (Società Italiana di Reumatologia, che finanzia anche la ricerca), della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e dell’Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri (AIPO). L’obiettivo è reclutare 308 pazienti ospedalizzati, colpiti da COVID-19, per i quali però non è ancora necessario il trattamento in terapia intensiva. “La colchicina è un vecchio farmaco che da molti anni utilizziamo contro alcune patologie infiammatorie acute, come gotta e pseudogotta, e altre forme infiammatorie croniche - afferma il prof. Roberto Gerli, Presidente Eletto di SIR e uno dei Principal Investigators dello studio -. Presenta delle peculiarità e delle potenzialità estremamente interessanti. Il farmaco può avere un’azione antivirale, ma contemporaneamente è in grado di bloccare la risposta infiammatoria del sistema immunitario senza però causare una immunodepressione. Sono tutte caratteristiche che possono essere sfruttate per limitare e quindi prevenire alti livelli di infiammazione responsabili dei danni d’organo determinati da un agente patogeno estremamente pericoloso e insidioso come il Coronavirus”. Lo studio COLVID-19 si svolgerà sull’intero territorio nazionale e potranno partecipare tutti i centri che inoltreranno una richiesta. “Dai dati finora disponibili emerge che circa il 25% dei pazienti ricoverati, a causa del virus, ha un peggioramento clinico che causa la necessità di ventilazione meccanica o il ricovero in terapia intensiva - prosegue il prof. Gerli -. Come comunità scientifica dobbiamo quindi trovare nuovi trattamenti per ridurre l’infiammazione polmonare e di altri organi e di conseguenza le ospedalizzazioni. Così sarà possibile dare nuove chances di sopravvivenza agli uomini e donne colpiti dal COVID e ridurre accessi e ricoveri nelle strutture sanitarie. Stiamo inoltre già lavorando a nuovi progetti di studio per il coinvolgimento di pazienti anche a livello domiciliare”. “La SIR e tutta la reumatologia italiana sono in prima linea per arginare questa terribile pandemia - conclude il dott. Luigi Sinigaglia, Presidente Nazionale SIR -. Siamo all’avanguardia nel mondo per il livello di ricerca scientifica prodotta e nel nostro Paese sono attive strutture sanitarie di riferimento a livello europeo. Fin dall’inizio dei boom di contagi alcuni farmaci anti-reumatici sono finiti sotto osservazione. Al momento diversi studi sono in corso per dimostrare se alcuni trattamenti utilizzati per la terapia di alcune patologie reumatologiche possono essere utilizzati anche per contenere l’infiammazione da COVID-19. Il nostro auspicio è di riuscire a breve a produrre evidenze scientifiche rilevanti da mettere poi a disposizione dell’intera comunità scientifica”.
“La patogenesi dell’infezione da COVID-19, denominato SARS-COV2, si pensa possa essere divisa in due fasi” spiega Venerino Poletti, Past President AIPO-ITS. “Nella prima fase prevale la proliferazione virale, nella seconda fase vi è un’importante attivazione dell’inflammasoma. Queste due fasi hanno momenti di sovrapposizione ma la seconda fase è quella ritenuta più importante nel sostenere il danno parenchimale polmonare.” “Si pensa che molti farmaci possano modificare questa esagerata risposta infiammatoria. L’idea, proposta dal Prof. Roberto Gerli, Direttore della Struttura Complessa Interaziendale di Reumatologia di Perugia e condivisa con AIPO-ITS e con il Prof. Venerino Poletti, è che la colchicina, farmaco già in uso da molto tempo anche nelle terapia di malattie auto-infiammatorie, possa modificare l’attivazione citochinica. Questo trial clinico è stato disegnato proprio per verificare questa ipotesi. L’endpoint primario dello studio è la mancata progressione o comunque la ridotta progressione della malattia” ha concluso Poletti.
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